Sulle critiche alle mostre di Palazzo Binelli
Torno sulla questione delle mostre di Palazzo Binelli a Carrara dal momento che dopo il mio post di qualche giorno fa è partito un volgare pestaggio a mezzo social nei miei riguardi e vorrei chiarire.
Vorrei tornare, soffermandomi un poco più a lungo, sulla questione di Palazzo Binelli, dacché a seguito del mio post di qualche giorno fa è partito un volgare, rozzo, squallido pestaggio a mezzo social nei miei riguardi ma, quel che più mi dispiace, nei confronti di terzi che hanno semplicemente condiviso il mio pensiero. Pensiero che, peraltro, credo non fosse neppure così elaborato, complesso o fraintendibile, e lo ribadisco: non penso che una mostra come quella ch'è adesso ospitata nel suo piano nobile possa essere la mostra con cui la Fondazione CRC si presenta a città e visitatori in uno dei periodi di massima attenzione dell'anno, né ritengo che la mostra di Eliseo Andriolo possa essere il biglietto da visita del soggetto privato con la storia più lunga di Carrara.
Per cominciare, ricordo un episodio: una chiacchierata che ho fatto qualche tempo fa con Jake Chapman, il quale mi disse che il lavoro d'un artista, una volta che esce dal suo studio, non è più un suo problema. L'opera, una volta uscita dallo studio, diventa affare del pubblico. Tra le tante deduzioni che da questo assunto si possono ricavare vi è l'idea che l'opera diventi oggetto della critica e la critica si muova secondo i modi che più le sono acconci. L'artista che al giorno d'oggi non accetta questo assunto, penso debba rimanere confinato dentro al suo studio. Anche io, per dire, da anni scrivo poesie, che finora sono rimaste ben strettamente relegate al privato dei miei fogli, ma qualora in un futuro più o meno remoto dovesse balenare per la mia testa l'idea di volerle condividere con un pubblico, allora dovrei accogliere serenamente l'idea che, una volta fuori dai miei fogli, non sarebbero più cosa su cui posso esercitare un controllo, e diventerebbero affare altrui. Lo stesso vale per le opere d'arte. E dovrebbe valere tanto per l'artista quanto per il suo entourage.
Naturalmente, non ho niente contro Eliseo Andriolo, artista che, esattamente come tutti gli artisti, avrà un suo pubblico, avrà i suoi estimatori, avrà la sua claque. E facendo una violenza a me stesso, dal momento che chi fa critica non dovrebbe mai dire cosa gli piace e cosa non gli piace, perché non è questa la base con cui si prendono le misure d'un artista, dirò anche che ci sono alcune sue cose che pure mi "piacciono", nel senso basilare del termine. Facendo, anzi, una doppia violenza a me stesso, dirò per esempio che il dipinto con la stazione di Viareggio, quello scelto per il manifesto della mostra di Palazzo Binelli, è un dipinto che "mi piace" nel senso basilare del termine, ovvero lo trovo gradevole, per certi versi mi ci riconosco, è dipinto bene, e sarei pure disposto ad ammettere che lo troverei bene appeso in una parete di casa mia. Non è però questo il punto: è che la critica si concentra su altri aspetti. Fare critica non significa emettere un giudizio di gusto. Fare critica, per il concetto che ho io di "critica", vuol dire, essenzialmente, formulare un giudizio estetico e un giudizio storico, significa offrire un contesto, significa mettere a punto un inquadramento. Non mi dilungherò ulteriormente (qualche mese fa ho scritto un articolo da 30mila battute sul mio metodo, rimando a quella lettura per chi volesse saperne di più) e mi limiterò a due banali, superficiali note su Andriolo perché detesto che mi si dica che faccio critica a caso. La pittura di Andriolo che si vede in mostra, tutta produzione recentissima (le opere più antiche in mostra credo rimontino al 2013 o giù di lì), mi pare si possa collocare dietro la scia della produzione di certo Ferroni (specialmente quello della parte centrale della carriera, quello degli interni e dei paesaggi degli anni Settanta: le porte di Andriolo, per esempio, mi paiono un'elaborazione derivativa di quelle che dipingeva Ferroni) e, forse soprattutto, degli artisti della Metacosa (Tonelli, Luporini ecc.), e accanto a tutta una pittura degli anni Settanta-Ottanta, da Salvatore Magazzini a Marcello Scuffi, da Leonardo Cremonini a Giorgio Scalco, che hanno rivisitato, riletto, rivangato in tutte le salse quella poetica d'un certo modo d'intendere lo spirituale come attesa, sospensione, silenzio e via dicendo, una ricerca che origina dalla metafisica di De Chirico e Carrà e che nasce in un momento preciso della storia dell'arte europea (ovvero all'inizio degli anni Dieci del Novecento quando tutta l'Europa era interessata a cercare di carpire in diversi modi questa vena spirituale: Kandinskij, Klee, Hammershoi nel nord Europa, in Italia artisti come Ar e Prencipe che con Hammershoi condividevano quel tono - la bella mostra di Rovigo di quest'anno ha messo bene in evidenza queste tangenze - e, appunto, i metafisici: qualche anno fa Sgarbi pubblicò un interessante articolo al riguardo, al quale rimando per chi volesse avere un'infarinatura meno superficiale della mia). La pittura di Andriolo sembra sempre indecisa se guardare qui, o se guardare piuttosto di là dall'oceano: nel suo testo introduttivo della mostra stampato sull'unico pannello in sala, Massimo Bertozzi (che, per inciso, scrive non un pezzo di critica, ma scrive un pezzo di simpatica letteratura, non c'è critica in quello che scrive, perché non c'è il minimo contesto atto a inquadrare la produzione di Andriolo se non due nomi buttati alla rinfusa nel mezzo d'un racconto: beninteso, è del tutto legittimo scrivere pezzi di letteratura, lo faccio anch'io, ma, anche qui, bisognerebbe capire che se ti rivolgi a un pubblico di una mostra del tutto disarmato nei riguardi di quello che sta vedendo, allora dovresti - tu organizzatore - comprendere che forse è meglio fornire al pubblico delle coordinate solide, altrimenti il raccontino può esser percepito come il mezzo per coprire quello che non c'è), lancia il nome di Hopper: io ci vedo semmai tutti quelli che dopo Hopper sono venuti, da Bechtle a Register tanto per fare due nomi a caso, ma rimane il fatto che non sembra esserci mai la volontà ferma e consapevole di decidere dove guardare, dal momento che non stiamo parlando di, che so, passaggi e momenti diversi e ben riconoscibili dentro una produzione varia, ma di una congerie vasta di suggestioni, rielaborate in maniera un poco impacciata, tratte da qua e da là in uno spazio ristrettissimo (una decina d'anni, gli ultimi dieci anni per giunta) per un artista ch'è coetaneo di quasi tutti gli artisti summenzionati. Se penso a chi ha raccolto quell'eredità in Italia in anni recenti, penso automaticamente, che so, a un Andrea Chiesi o a un Andrea Di Marco, ovvero pittori che possono sembrare apparentemente animati dagli stessi intenti, ma che in realtà raccolgono, in un discorso unico, organico e coerente, tutta una serie di stimoli (l'estetica post-industriale, quella punk, il romanticismo di Friedrich, le carceri di Piranesi per Chiesi, la fotografia architettonica di un Basilico o di Bernd e Hilla Becher e, secondo qualcuno, pure il cinema di Wim Wenders per Di Marco) che rendono i loro lavori più complessi e stratificati. E, peraltro, le cose di Chiesi e di Di Marco si collocano pure cronologicamente prima di quasi tutto quello ch'è dato vedere a Palazzo Binelli. Non è dunque neppure problema di combattere una battaglia di retroguardia, perché credo si possa essere contemporanei anche senza essere dirompenti e senza voler rimanere per forza attorcigliati al lampione dell'originalità: neppure Ferroni era un avanguardista, ma c'erano in Ferroni una profondità, una complessità, una volontà consapevole di rottura, un atteggiamento indagatore, e per certi versi anche un intento programmatico (tant'è che avrebbe avuto dei continuatori) che oggi ci consentono di ritenere significativa la sua esperienza. Quello che abbiamo visto a Palazzo Binelli si pone a latere di tutto questo. Non è un problema di "la mostra non ti è piaciuta": sì, la mostra mi è piaciuta tantissimo, resta il fatto che ritengo che Palazzo Binelli non avrebbe dovuto immaginare la mostra di Andriolo come esposizione di punta per i motivi sopra detti. Questo non significa che Andriolo non sia un buon pittore, un pittore valido, che non debba essere esposto. Significa che nelle sale del piano nobile di Palazzo Binelli, nel clou della stagione, m'aspetterei altro.
Veniamo dunque a Palazzo Binelli. Cos'è che impedisce a Palazzo Binelli di non avere un palinsesto discontinuo, raccogliticcio, apparentemente casuale? Perché credo, peraltro, che in queste sale si sia visto anche di peggio. Non penso sia un problema di mancanza di risorse, perché esistono le modalità per fare mostre con nomi di punta senza grosso dispendio di energie. Visto che s'è detto sopra di Andrea Di Marco: qualche anno fa, nelle sale di Vôtre, l'amico Nicola Ricci organizzò una bellissima mostra di Andrea Di Marco (con un omaggio pittorico di Francesco Lauretta, altro nome di caratura nazionale), dove c'era buona parte del meglio dell'artista siciliano, che ricordo tra le cose più interessanti che si siano viste a Carrara negli ultimi tempi. Non è stata una mostra che ha richiesto un grosso dispendio finanziario. Vôtre, negli anni, ha fatto cose meravigliose, peccato abbia chiuso e che Carrara risulti dunque privata di quello ch'è stato per tanto tempo, e lo dico senza tema di smentita, il principale punto di riferimento per l'arte contemporanea di alto livello in città. Non è un problema di risorse, dunque. Credo sia semmai un problema di governance, diciamo così. Palazzo Binelli adesso dà l'idea di essere un contenitore di mostre livellate verso il basso, dove tutti gli uomini e le donne di buona volontà possono ambire a esporre nelle mostre di cartello, che si succedono peraltro a un ritmo frenetico, dal momento che hanno grosso modo durata d'un mese, se non anche di meno. Non so se c'è una direzione artistica, una direzione scientifica, se c'è un comitato scientifico, non ne ho idea: l'impressione è che non ci sia, e se c'è forse andrebbe rinnovato in senso più rigoroso, con membri che abbiano conoscenze trasversali, una qualche esperienza, che riescano a vedere cosa fanno in giro enti che si possono paragonare alla Fondazione CRC. A me piacerebbe immaginare una Fondazione CRC che riservi il piano nobile alle mostre di rilievo, com'era stata quella sulla gipsoteca, com'era stata Uguali Disuguali sempre di Nicola Ricci, com'è stata di recente anche la mostra di Enzo Tinarelli. Mostre che abbiano delle fondamenta solide, con un percorso critico ragionato, dove non ci sia spazio per fraintendimenti (penso alla storia dei bollini rossi attaccati alle didascalie delle opere di Andriolo: se qualcuno avesse saputo cosa convenzionalmente questo simbolo significa, non penso ci sarebbe stata possibilità di commettere questa gaffe), e che magari richiamino anche pubblico. E dove le sale al pianterreno diano conto di tutte le produzioni locali, perché ritengo giusto, corretto e sano che tutti debbano giocarsi la possibilità di esporre e di farsi conoscere a un pubblico largo. Con un comitato che faccia selezione, che sia in grado di vagliare, che riesca a comprendere che non tutto può essere messo sullo stesso piano, perché ne va anche dell'immagine di uno spazio espositivo.
La mia critica, per chiudere, non voleva essere distruttiva, né fine a se stessa, né ce l'ho con la Fondazione CRC perché mi avrebbe negato chissà quali possibilità, com'è stato ventilato (per inciso, rispondo a chiunque abbia sollevato questo dubbio: no, non ho mai chiesto niente alla Fondazione CRC e non ambisco ad alcun ruolo). No, niente di tutto questo: Palazzo Binelli è un luogo accogliente, dove vado sempre volentieri. È che il mio lavoro di giornalista mi porta spesso a girare per tutta l'Italia e a vedere cosa le altre fondazioni bancarie fanno. Certo: in gran parte dei casi con risorse che non sono neppure lontanamente paragonabili a quelle della Fondazione CRC, ma ripeto che non è questo il punto, perché si possono costruire basi solide anche senza disporre di enormi risorse. E poiché vedo quello che c'è in giro, e poiché tengo tanto alla mia città, alle volte i paragoni mi vengono naturali e penso a cosa potrebbe diventare Palazzo Binelli se riuscisse a costruire un'offerta solida, pianificata, riconoscibile. Vorrei, insomma, cercare d'esser costruttivo e provare a fornire qualche spunto: se mi riesce, bene. Se non mi riesce, avrò prodotto qualche riga da leggere sotto l'ombrellone.